pubblicato il 3 ottobre su www.ravennanotizie.it
articolo: A, B, C DELLA DEMOCRAZIA. C COME COSTITUZIONE / La Carta chiama: in Piazza S. Giovanni per il lavoro, la pace, l’ambiente, il diritto alla salute e all’istruzione – RavennaNotizie.it
Ci fu un tempo, alle nostre spalle, ma non molto lontano da noi, in cui ripudiare la guerra fu considerato un proposito tanto a portata di mano da finire nella nostra Costituzione.
La prima parte dell’articolo 11 della nostra Carta recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali …”. La scelta del termine RIPUDIA non fu immediata. È stato con commozione che, tempo fa, vidi una minuta dei lavori della Costituente, preparatoria alla stesura dell’art. 11. Nella prima stesura compare il termine “rifiuta”, poi cancellato – la cancellatura è ben visibile – e che diventa ripudia, ben più forte. Non è solo un no, è un no detto con sdegno, con disgusto.
L’Assemblea Costituente era composta da uomini e donne – poche – provenienti, nella quasi totalità, dall’antifascismo attivo, segnato dalla guerra, patita anche nei loro corpi, umiliati nelle carceri, esiliati, straziati da lutti, di familiari o compagni uccisi. Lo sdegno era vivo, e finisce in Costituzione. Teresa Mattei, una delle 21 Madri Costituenti, e la più giovane, in Assemblea, incarnava lo sdegno. L’amato fratello antifascista, Gianfranco, scienziato di grande valore, era morto in un carcere fascista. Lei, giovanissima, stuprata da un tedesco. Ricordo sue parole. Quando in aula fu approvato definitivamente l’art. 11, con il ripudio, noi 21 donne, insieme, scendemmo dall’emiciclo, e danzammo dalla gioia, tenendoci per mano. Un immediato sentire, da festeggiare. Gli uomini, più calmi, restarono seduti sugli scranni, applaudendo. Una diversità ben visibile. Guerre, mai più. Dopo Hiroshima e Nagasaki, basta!
E Teresa Mattei, anche nell’ultimo tornante della sua lunga vita, continuava il suo “urlo” pacifista. Come vi permettete di fare ancora guerre. Di sganciare bombe? Di uccidere? Un allontanarsi continuo, già dagli anni Cinquanta, dalla festa di quel suo giorno, lei, giovane, con le sue compagne Costituenti, tutte, laiche e cattoliche, felici dopo anni di terrore.
Basta, hanno detto anche molte donne e alcuni uomini, venerdì scorso, in Piazza del Popolo a Ravenna. Ci ha richiamato in piazza la Casa delle donne, con le sole bandiere della pace. Nessun’altra bandiera. Solo una ben visibile citazione Fra vincere e morire, c’è una terza possibilità, vivere. Parole che Christa Wolf fa dire a Cassandra. E un lungo drappo delle Donne in Nero Fuori la guerra dalla storia. In sintonia con donne israeliane e palestinesi, che in questi giorni, insieme, dicono Tacciano le armi, tutte.
In queste giornate molto scure, già nere per la guerra in corso in Ucraina – ci oscuriamo soprattutto, sbagliando, per le guerre vicine a noi, sapendo quasi nulla delle altre decine di guerre in corso -, sono tormentata da interrogativi, che rinviano a parole, molto lontane e molto vicine.
Torno a Tacito, storico romano che subì in silenzio, per quindici anni, il totalitarismo dell’imperatore Domiziano. Alla morte di Domiziano, subito prese la parola e scrisse il De Agricola, opera dedicata a suo suocero, governatore della Britannia. Certo, questa opera è una biografia storica, e agiografica, ma contiene un passo che è spesso citato per circostanze analoghe a quelle dei Caledoni, sconfitti dai romani conquistatori. Tacito fa dire al loro capo, Calcago, Fecero un deserto e lo chiamarono pace. I Romani imperialisti fecero il deserto. Tacito pacifista? Sarebbe una forzatura interpretativa. Ma, senza dubbio, Tacito accusa l’avidità dell’imperialismo romano, al quale Agricola aveva probabilmente cercato di sottrarsi, cercando di governare con mitezza. È probabile che Domiziano lo abbia, per questo, avvelenato. È lontana, la voce di Tacito, ma ci sottolinea invarianze della storia, arrivate fino a noi. Annichilire il nemico? Umiliarlo? No, dice Tacito.https://dec03e88bedd74876616d7642d7784b5.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-40/html/container.html
Se ci avviciniamo a noi, e di molto, trovo una fonte che mi ha suggerito Utopia con interrogativo. È il carteggio di Einstein e Freud, nell’estate del 1932. Interrogativi, dubbi, perché la guerra? L’umanità riuscirà mai a uscirne? È un documento che non solo testimonia il livello altissimo raggiunto dal pensiero di due intellettuali tedeschi, ebrei, ma che ci parla, come se i dialoganti fossero qui con noi, in questo nostro tempo.
Freud, nel rispondere a Einstein, a proposito del continuo perfezionamento dei mezzi di distruzione, scrive che questo perfezionamento potrebbe portare allo sterminio di uno o forse entrambi i contendenti e, per questo “… ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità”. RIPUDIATO. E si chiede con “Noi pacifisti, quanto tempo dovremo aspettare?”. Allude poi, Freud, ad una sua speranza che non considera utopica. Due fattori potrebbero portare al ripudio della guerra. Il diffondersi nel tempo, nell’umanità, di un atteggiamento più civile. Da ostile a civile. E il giustificato timore degli effetti di una guerra futura.
Freud mmaginò l’atomica prima che Einstein e Oppenheimer la mettessero nelle mani degli umani. Il carteggio fu pubblicato in Francia nel 1933. Hitler, in quell’anno vincente, ne vietò la diffusione in Germania. Due pacifisti per di più ebrei. Un orrore da cancellare dalla faccia della terra, la guerra. Freud non vide l’atomica sganciata. Se l’avesse vista, avrebbe ancora considerato la sua speranza non utopica? Chissà, forse il ripudiare arriva nella nostra Costituzione partendo da Freud.
In questi giorni ho spesso letto e riletto un saggio scritto da una filosofa ebrea, Hannah Arendt, dal pensiero politico di grande forza. La scrittura del saggio a cui faccio qui riferimento è della primavera del 1948. È, di fatto, una lettera aperta rivolta al suo popolo. Ben Gurion stava proclamando lo Stato ebraico, forte della decisione dell’ONU del 29 novembre del 1947, che aveva accettato la spartizione della Palestina e la formazione di uno Stato ebraico. Hannah Arendt rivolse al suo popolo un appello accorato, che potrebbe essere sintetizzato in Fermatevi! Patria ebraica non è Stato ebraico. La Patria ebraica si trova nella meravigliosa esperienza dei Kibbuz, un esperimento sociale e solidale di grande speranza, che poteva essere un esempio per il mondo intero, all’interno di uno Stato binazionale, di arabi e ebrei, che era il dato storico consolidato, da molti decenni, ormai.
Una donna ebrea, Hannah Arendt. Nata ebrea, si accorse cosa significasse essere ebrea, già da fanciulla, a scuola, ascoltando parole di disprezzo per gli ebrei. La madre le insegnò, quando questo accadeva, ad alzarsi e a tornare a casa. E, ormai donna, visse la necessità di fuggire, di mettersi in salvo, per aiutare dall’America – dove arrivò a guerra iniziata – gli ebrei che fuggivano dall’Europa cercando rifugio in Palestina, dove da tempo si stavano appunto diffondendo comunità ebraiche, i Kibbuz.
Hitler la indusse, per un breve periodo, ad avvicinarsi al sionismo. Ma ben presto, come fu per Einstein, nacque in lei il timore per un nascente pericoloso nazionalismo ebraico. Pericoloso come tutti i nazionalismi. In questo saggio trovo parole che mi riportano alla Cassandra di Christa Wolf, che sicuramente ha letto Arendt. “.. sorprendente è il fatto che gli uni [gli ebrei di Palestina] e gli altri [gli ebrei d’America] siano sostanzialmente d’accordo sui seguenti giudizi … è giunto il momento di ottenere tutto o niente, vittoria o morte; le rivendicazioni arabe sono inconciliabili con quelle ebraiche e il problema può essere risolto solo militarmente; gli arabi, tutti gli arabi, sono nostri nemici… solo i liberali antiquati credono nei compromessi, solo i filistei credono nella giustizia … siamo pronti a cadere combattendo, e considereremo chiunque ci sarà di ostacolo un traditore…”.
Arendt, invece, è convinta che solo l’amicizia arabo-ebraica può essere garanzia per l’esistenza degli ebrei in Palestina. In caso contrario, se gli ebrei dovessero vincere la guerra, sarebbero per sempre circondati da una popolazione araba interamente ostile. Quindi, fermatevi! Ma Hannah Arendt fu Cassandra inascoltata. Filosofia, politica e storia, in quel momento, presero strade opposte. E oggi siamo al punto di partenza, con le armi atomiche in grande diffusione, a ovest e a est.
Allora, quale è la risposta? Oggi un ripudio universale della guerra è utopico. L’Europa nella quale siamo resiste nel dire no alla guerra in casa propria. Ma si sta chiudendo in se stessa e sta aiutando con armi, e non con compromessi, chi è in guerra. Noi, “liberali antiquati che credono nei compromessi”, siamo minoranza, a ovest e a est, a nord e a sud.
Dovremo per questo rassegnarci al silenzio? Hannah Arendt ci consiglia di non farlo. In particolare oggi. Il 16 ottobre di ottanta anni fa ci fu il rastrellamento del Ghetto di Roma. Fascisti e nazisti insieme, in nome della loro razza, volevano ripulire il mondo da quella che ritenevano una razza immonda. Nello stesso anno, il 1943, arabi ed ebrei vivevano insieme e in pace in Palestina. RICORDIAMOLO.