Femminile Maschile Plurale Articoli di femministe A proposito di indispensabile CURA

A proposito di indispensabile CURA

Il  prossimo 29 luglio, nel corso della assemblea estiva di Femminile Maschile Plurale, dedicheremo uno spazio di riflessione e dialogo su una questione centrale del nostro tempo. Centrale da tempo immemorabile, in realtà, ma che la pandemia impone di prendere in considerazione con sguardo immediato, non profetico ma rivoluzionario. 

La cura, le vite, il mondo.

Come  ci dice il titolo di un  recente articolo di Lea Melandri, come emerge dal libro Manifesto della Cura e dall’appello della assemblea della Magnolia, a Roma, che invita alla mobilitazione.  

Propongo come nostra personale preparazione alla assemblea l’articolo di Lea e l’appello della assemblea della Magnolia.

Nel prossimo autunno prevediamo un nostro incontro di studio e approfondimento sul tema cura, in collaborazione con la Libera Università delle donne di Milano e con Lea.

Donne naturalmente soggetto rivoluzionario? Non lo credo. Lo sono, se partono dalla loro esperienza millenaria di cura, ne comprendono le ragioni profonde e agiscono con radicalità quotidiana.

Paola Patuelli

La rivoluzione della cura

Lea Melandri

Il Riformista

20 luglio 2021

“La nostra società è stata abbandonata all’incuria. La pandemia l’ha scoperta e aggravata. Per questo noi vogliamo cambiare il punto di vista con cui si guarda il mondo. Vogliamo una società e delle comunità che non sfruttano, non estraggono ricchezza dagli altri e dal pianeta, ma se ne prendono cura, lo custodiscono. Una società dei beni comuni. Noi vogliamo avviare la “rivoluzione della cura” (…) che per noi significa una nuova idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione per ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo”. E’ quello che si legge nell’Appello dell’ Assemblea della Magnolia, – Casa Internazionale delle Donne di Roma- , uscito ai primi di luglio, con l’idea di promuovere “un percorso di confronto da concludere con una manifestazione a Roma il 25 settembre: “Le donne in piazza. Quale ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia”.

Che il Covid-19 abbia portato all’evidenza i disastri annunciati di “mondi senza cura” –crisi climatica, rifugiati lasciati morire nel Mediterraneo, omicidi di donne e uomini neri negli Stati Uniti, migliaia di femminicidi, mercificazione privatizzazione di bisogni essenziali, come la salute e l’istruzione, ascesa di regimi totalitari, razzismo, xenofobia, ecc.- e al medesimo tempo “ci abbia dato effimeri indizi di quello che potrebbe essere un mondo migliore”, è anche l’analisi che sta alla base del “Manifesto della cura”, scritto a più mani dal gruppo londinese Care Collective e tradotto in Italia quest’anno da Marie Moise e Gaia Benzi.

“La consapevolezza della nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri è il primo passo per rimettere la cura al centro dell’agenda politica e sociale”.

Si tratta senza dubbio di un grande cambiamento , che non si limita a mettere in discussione le politiche liberiste, ma l’eredità millenaria di una cultura patriarcale che ha associato e perciò svalutato la cura come “naturale” predisposizione delle donne, in quanto madri, considerato la fragilità e la debolezza dei corpi come “poco virili”, e relegate perciò all’ambito familiare. La pandemia sembra avere paradossalmente chiuso le porte di casa, costretto le donne a portare al suo interno il peso di un doppio lavoro, prestazioni di assistenza a bambini e anziani, ma di averle, allo stesso tempo, spalancate a prospettive che potrebbero sembrare avveniristiche, se non avessero il supporto di consapevolezze nuove e di percorsi innovativi riguardanti la famiglia, le comunità, gli Stati, il mondo. Al centro, l’assunto di fondo “che siamo tutti responsabili, insieme, del lavoro di cura (…) sia a livello quotidiano, sia nella sua accezione di sostegno necessario per la tutela della comunità e del mondo intero”. Se la famiglia tradizionale rappresenta ancora il prototipo della relazione di cura, le nuove forme di intimità che stanno nascendo, “al di là di quelle autorizzate dall’eteronormatività”, lasciano pensare che la figura della persona “amica” “potrebbe sostituire “la madre” come modello di cura. Del resto non sono mancate, fin dagli anni ’70, forme alternative di accudimento riguardanti bambini e anziani, e, nel corso della pandemia, gruppi di mutuo soccorso che hanno rischiato di infettarsi per consegnare medicine e beni essenziali a persone in stato di fragilità e isolamento. Per dar vita a comunità o mondi di cura è necessario innanzi tutto riconoscere che la dipendenza, finora patologizzata, è “parte integrante della condizione umana”, che paradossalmente sono i più ricchi a aver bisogno di persone pagate per soddisfare le loro esigenze personali, anche se questa dipendenza resta nell’ombra, negata dal fatto che possono dare ordini, licenziare o sostituire. Ma è altrettanto importante che siano gli Stati a farsi carico delle risorse materiali e immateriali indispensabili, a garantire le infrastrutture sociali che rispondano ai bisogni primari: salute, ambiente, democrazia partecipativa a ogni livello. A mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali” “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi , centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green.

Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo “al lavoro la vita” (Cristina Morini). All’“ambivalenza della cura” sono dedicate alcune delle pagine più interessanti del Manifesto. La parola “care” significa anche preoccupazione, ansia, angoscia: entrare in rapporto diretto con la fragilità, con la sofferenza dei corpi, aspetti repellenti e imbarazzanti della malattia, può produrre rigetto, intolleranza in chi se ne deve occupare “Anche per questo –si legge- il lavoro di cura è la dimensione a cui sono state relegate le donne, la servitù e altri soggetti considerati inferiori (…) Il razzismo si è combinato con le disuguaglianze di genere”. 

La pandemia, osservano le firmatarie dell’Appello della Magnolia, ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità: “Oggi le donne, soprattutto straniere, sono più povere, più precarie (…) impiegate prevalentemente nei servizi, nell’assistenza, nel commercio, hanno dovuto restare a lavorare in presenza, a prendere i mezzi pubblici, per consentire agli altri di rispettare il lockdown”. Mi chiedo se basterà questo a muoverle verso le piazze per esprimere il loro dissenso, la loro ribellione a un destino che ha assegnato loro ambiguamente, contraddittoriamente, un potere di indispensabilità e, al medesimo tempo, di sottomissione al mondo che porta ancora oggi il segno di una comunità storica di uomini, patriarcale e liberista?

APPELLO della Assemblea della Magnolia

LE DONNE IN PIAZZA

“Quale ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia!”

Il Covid ci ha dato ragione.  Lo abbiamo gridato esattamente un anno fa, l’8 luglio del 2020, nel pieno della pandemia, nella nostra prima Assemblea della Magnolia, che ha visto l’adesione dei tanti luoghi delle donne e di tantissime altre donne, associazioni, singole, donne dei movimenti e delle istituzioni. Diverse ma insieme, riunite per capire cosa era successo e cosa ci era successo, ma anche per riprendere parola pubblica.

Oggi, come ieri, è sempre più necessario.

Il Covid ci ha dato ragione, ma la lezione del Covid rischia di essere messa tra parentesi.  Contro l’unanimismo imperante, serve un’altra visione, pensieri lunghi e scelte coraggiose per non ripetere le vecchie ricette, per non riproporre la follia dello stesso modello di produzione e di consumo, che distrugge l’ambiente e determina lo sfruttamento delle persone e degli animali, per non rilegittimare il fallimento delle politiche liberiste, che hanno costruito disuguaglianze, povertà, smantellato i sistemi pubblici di protezione sociale e di tutela dei diritti del lavoro.

E’ stata, quella del Covid, una crisi della cura, ma il cambiamento non c’è.

Anni e anni di tagli, privatizzazioni, riduzione dei servizi alla persona, assunzione del mercato come unica regola della vita, hanno prodotto una società più ingiusta. Persino la politica dei vaccini, condizionata dalle grandi corporation  farmaceutiche,  ha dimostrato  che la salute e la vita dei più è subordinata  al profitto di pochi.

Lo stato sociale non c’è più: lo hanno trasformato da un sistema per sostenere la fruizione dei diritti e la costruzione dell’uguaglianza,  a un coacervo di misure per attenuare le povertà e le disuguaglianze determinate dalle politiche liberiste, dalle privatizzazioni  e dall’innovazione. Le politiche sociali praticate oggi, lungi dall’essere strumento della lotta delle donne per la loro libertà, rischiano di  ribadirne il destino subalterno, meritevole al massimo di un bonus di sostegno finanziario.

Nella sanità, abbiamo scoperto che da anni opera un’organizzazione ormai gracile, pronta a polverizzarsi, che le Residenze per anziani sono diventate luoghi di deposito e di parcheggio dei corpi. Da quei luoghi tanti, troppi se ne sono andati in silenzio. Colpiti, perché vecchi, dalla violenza che li considera improduttivi e considera inutile la loro esistenza. Così come è violenza aver costretto tante donne a sacrificarsi per tenere insieme i bisogni dei piccoli e dei grandi.

Il Covid ha evidenziato  che la crisi climatica che sta mandando al collasso il pianeta non ha soluzione senza le donne e senza la parità di genere non può neanche realizzarsi  la giustizia climatica e un vivibile modo di stare al mondo.

La pandemia, precipitata addosso a una società già resa fragile dalle politiche liberiste, ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità.

Oggi le donne – e tra le donne soprattutto quelle straniere – sono più povere, più precarie e il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione sono stati di ben poco aiuto per evitare la perdita dei loro posti di lavoro. Tutte le scelte di gestione dell’epidemia hanno prodotto un aumento della fatica delle donne, dalla DAD, al cosiddetto smart working, al contingentamento e al distanziamento, alle restrizioni per anziani, malati e disabili. Le donne, impiegate prevalentemente nei servizi, nell’assistenza  e nel commercio, hanno dovuto in gran numero restare a lavorare in presenza, a prendere i mezzi pubblici, per consentire a tutti gli altri di rispettare i lockdown, neppure difese dagli accordi stipulati, dopo aspre battaglie, dai sindacati con le imprese.

Una società incapace di prendersi cura dei viventi, è una società non solo ingiusta, ma anche più fragile, più esposta.

Come ha scritto il Gruppo delle femministe del mercoledì, il Covid-19 ha scoperchiato la vulnerabilità dei nostri corpi, trasformato i ritmi della giornata. Le abitudini sono state sradicate dalla dilatazione del tempo che ha reso difficili le relazioni. Non solo nella cerchia più stretta ma là dove c’era la possibilità di incontro con gli altri, gli estranei, capace di produrre curiosità e scoperte. Qualcuna si chiede se stiamo accettando di sopravvivere rinunciando a vivere.

La presenza del  Covid-19 ha cancellato dalle menti le rivolte contro i regimi e le stragi per reprimerle; le lotte delle donne per le libertà negate; le guerre; i disastri ambientali sempre più incontrollabili. Naufraghi chiedono soccorso per giorni nell’indifferenza dell’Europa, muoiono nel Mediterraneo mentre il presidente del Consiglio italiano va in Libia e ringrazia la guardia costiera per i migranti “salvati”.

La nostra società è stata abbandonata all’incuria. La pandemia l’ha scoperta e aggravata.  Per questo noi vogliamo cambiare il punto di vista con cui si guarda al mondo. Vogliamo una società e delle comunità che non sfruttano, non estraggono ricchezza dagli altri e dal pianeta, ma se ne prendono cura, lo custodiscono. Una società dei beni comuni.

Noi vogliamo avviare la “rivoluzione della cura”, che  per noi significa passare da un mondo in cui tutto si misura per prestazioni a un mondo in cui diventano fondamentali le relazioni; che per noi significa un posizionamento politico e culturale, per ricostruire il legame sociale, per una nuova idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione per ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo. Una rivoluzione della cura che si contrappone alla cosiddetta “care economy” oggi usata per coprire e per “modernizzare”  la crisi del welfare, di fatto per rendere inesigibili i diritti che il welfare ha storicamente assunto dalla carta costituzionale.  Una rivoluzione della cura che mette al centro il rispetto dell’altro, i diritti e le libertà di tutte e di tutti, a partire dal diritto alla cittadinanza e dal riconoscimento di tutte  le soggettività LGBTQ+.

Di tutto questo non vi è traccia, non solo nel PNRR ma anche nella visione politica del governo.

Cambiare rotta comporta scelte non indolori.  Ma l’insufficienza del PNRR non ammette silenzi. Rivendichiamo un approccio radicale e femminista, per cambiare i meccanismi sociali ed economici che proteggono un sistema di potere fatto di gender pay gap, di cultura della violenza e dello stupro, di cristallizzazione dei ruoli di genere nelle famiglie, di connivenza con la cultura patriarcale. Rivendichiamo di essere femministe e quindi contro le guerre, contro l’aumento delle spese militari e per la proibizione assoluta delle armi nucleari.

E chiediamo

– che il welfare pubblico non sia residuale, che a ogni investimento di risorse europee corrisponda un necessario aumento di spesa corrente, per garantire che gli impegni, a partire da quello pur del tutto insufficiente per la costruzione di nuovi asili nidi, non restino soltanto sulla carta;

– che i servizi non debbano essere sostituiti dai bonus e dal modello di acquisto di prestazioni individuali nel mercato dei fondi assicurativi ;

– che siano garantiti i livelli essenziali di assistenza per i servizi sociali;

– che gli ammortizzatori sociali garantiscano tutti i tipi e le forme di lavoro;

– che, indipendentemente dal lavoro, sia garantito un reddito che chiamiamo di dignità e autodeterminazione, per tutti, ma soprattutto per le  donne, per uscire dalle situazioni di violenza;

– che, grazie al potenziamento del welfare e della PA (ambiti dove è prevalente l’occupazione femminile) siano realmente aumentati i posti di lavoro per le donne;

– che per ogni progetto e per tutte le politiche sia garantita – e governata da una rigorosa equa rappresentanza di genere – non solo una valutazione ex ante ma anche un  monitoraggio ex post  rispetto alla ricaduta in termini di occupazione femminile, di lavoro delle donne, sicuro e di qualità;

– che siano resi espliciti gli obiettivi del tasso di occupazione femminile– come aveva fatto l’Europa per il 2020; di quanto si vuole aumentare l’occupazione delle donne e entro quando?

– che sia sostenuto una grande piano nazionale contro la precarietà, modificando le attuali regole del mercato del lavoro, garantendo che a lavoro stabile corrisponda sempre una lavoratrice stabile, e non invece una lavoratrice a part time, con partita IVA o retribuita con voucher;

– che si controlli ogni forma di abuso per l’utilizzo del part-time come “obbligatorio” per le donne e dello smart  working come strumento di flessibilità governata solo dall’impresa;

-che si garantiscano dignità, diritti, tempi di vita per tutte e tutti;

– che vengano riconosciuti e finanziati i luoghi delle donne, perché luoghi politici femministi, di promozione di empowerment e di libertà femminile.

Come ci ha insegnato il Covid, il cambiamento, profondo e radicale, è necessario.  Ma ancora non c’è, né ci sarà, senza le donne!

Per questo, oggi più di ieri, serve la cultura e il pensiero delle donne, la mobilitazione, la conflittualità, la forza delle donne. Per questo dall’Assemblea di oggi, tutte insieme, diverse ma unite, lanciamo questo appello che è rivolto alle donne, a tutte le donne, ma che intende entrare in connessione con tutte le esperienze e realtà che hanno costruito pratiche sociali, di resistenza e di progettualità. Chiediamo di discuterlo e, se si vuole, di condividerlo, sottoscriverlo. Il nostro obiettivo è costruire insieme un percorso, per promuovere una grande manifestazione di donne, di tutte le donne, ma anche di tutti quelli che sono consapevoli che la rivoluzione della cura è una necessità per il mondo, per le nostre società, per le nostre vite.

25 settembre 2021

Manifestazione nazionale a Roma

“DONNE IN PIAZZA”

“Ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia!”

Roma, 8 luglio 2021                                                                      L’ASSEMBLEA DELLA MAGNOLIA

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