Purtroppo, si ragiona sulla complessità della condizione di chi mette al mondo creature umane, soprattutto quando irrompono notizie di madri che uccidono figli propri. Questo ho pensato, sentendo della uccisione della piccola Elena, per mano materna, e leggendo l’articolo di Lea Melandri, che qui pubblichiamo.
Alla ambiguità del materno l’Associazione Femminile Maschile Plurale ha dedicato, nel 2014, un convegno, divenuto poi un libro Ambiguo materno (Fernandel 2017) che raccoglie contributi di Eleonora Cirant, Vanessa Maher, Lea Melandri Lea Melandri, Piera Nobili, Maria Paola Patuelli, Serena Simoni. Il femminismo ha lavorato molto su corpo e sessualità. Meno sul materno, salvo il tentativo di una scuola di pensiero femminista di fare della maternità una episteme fondativa della nostra differenza di donna. Una metafisica molto lontana dall’ambigua condizione delle madri, che spesso oscilla – fortunatamente solo a volte in forme tragiche – fra amore, fusione, insofferenza, stanchezza, angoscia, altalenando stati d’animo non di rado fra di loro opposti. Una ambigua realtà che il quotidiano conosce, nello smentire una pretesa di amore perfetto, l’amore che non chiede nulla in cambio. Non solo la soppressione violenta, quindi, smentisce la presunta naturalità dell’immediatezza perfetta dell’amore materno. Anche le parole di Sibilla Aleramo, donna scandalosa che preferì la libertà al figlio, e di Agnese Seranis, che ho letto dopo averla sentita richiamare numerose volte da Lea. Non molte sono le donne che hanno messo in parola scritta il turbamento provato nel sentire il loro corpo invaso, e nel comprendere che la loro vita sarebbe stata essere madre per sempre. Nessun ritorno sarà possibile.
Donne che scelgono di diventare madri, lo diventano per identiche ragioni? Perché questo vuole madre natura, e alla natura si obbedisce? Perché il mondo dove sei nata questo si aspetta da te? Perché lo devi? Certamente molte donne lo desiderano. Fra queste, ci saranno madri brave. Come sono le madri brave? Quelle che dicono il senso della mia vita è tutto lì, nei figli che ha partorito? Non le considero brave madri.
Una riflessione conclusiva di Lea fa riflettere. Figlie e figli che diventano armi imbracciate in guerre matrimoniali. I padri padroni lo fanno. I numeri dicono che sono più le madri, a farlo. Incredibile ma vero. E su questa verità poco si riflette.
Nel nostro convegno del 2014, Ambiguo Materno, parlammo anche di donne che scelgono di non diventare madri. Scelta in questo caso sicuramente libera, ed eretica. Perché ben altro società e cultura si attendono da te, donna.
Tante possono essere le ragioni dietro le mani di una madre assassina. Le donne che si sono nutrite di femminismo non possono ignorarlo, né trascurare le ragioni ambigue di storie difficili da narrare..
Paola Patuelli
20 maggio 2022
Per favore, smettetela di idealizzare la maternità
Quando una madre uccide il proprio figlio
Lea Melandri
Il Riformista, 17 giugno 2022
Da Cogne (2002) a Catania, dove è appena stata uccisa la piccola Elena del Pozzo, sono passati vent’anni e la domanda è sempre la stessa: “Come può una madre uccidere il proprio figlio?”. Il fatto che a uccidere siano sempre stati, sia pure in percentuale minore, anche i padri, non suscita lo stesso interesse, né da parte dei media né della gente comune. Sulla donna che uccide il figlio cade quasi sempre un giudizio impietoso. Se non si può addebitarle l’uso di droghe o velleità malcelate di carriera, amori, successi, le ragioni che spingono una donna ad abbandonare quello che resta, nonostante i cambiamenti, il “naturale” destino femminile, sono considerate in ogni caso imperdonabili. Sul disagio e sulla violenza che c’è dietro nulla si dice perché della maternità, dell’oscuro travaglio di vita e di morte che essa comporta fin dalla gravidanza e dal parto molto poco hanno detto le donne stesse.
Nella Prefazione al romanzo “Teresa” di Artur Schintzler, Sibilla Aleramo commenta così il tentato infanticidio della protagonista: “Quella feroce brama di annientamento, quell’attimo di coscienza, non sai se disumana o sovrumana, in cui la donna si ribella alla natura, si ribella a essere strumento di vita, poi quel trapasso dall’odio all’amore, quell’accettazione sommessa, quel rapimento e, infine, unica ma formidabile rivalsa, quel sentimento assoluto per tutta l’eternità,che il figlio è suo, soltanto suo.” Con una lucidità che neppure il femminismo sembra avere conservato, Sibilla sottolinea il legame perverso tra due violenze: quello che ha fatto della donna lo strumento della conservazione della specie per secoli, senza il suo consenso, e quella che, a sua volta, per “rivalsa” o per un disperato rifiuto, la donna è spinta a esercitare sul figlio come suo “possesso”. “Si può uccidere un bambino perché piange?” -ci si è chiesto a proposito del delitto di Cogne. La risposta tragica e banale che si esita a dare è “sì, si può”, almeno finché si pensa che la sorte della madre e del figlio siano legate per sempre e in modo esclusivo, che per crescere l’individualità dell’uno sia necessario il sacrificio dell’individualità dell’altra.
Quando fu pubblicato in Italia la prima volta il libro di Glauco Carloni e Daniela Nobili, “La madre cattiva. Fenomenologia, antropologia e clinica del figlicidio”, presso l’editore Guaraldi nel 1975, i mezzi di informazione ancora non riportavano, se non con marginali trafiletti, la puntuale sequenza di episodi di abusi incestuosi, maltrattamenti da parte dei genitori o di veri e propri figlicidi. E poiché era soprattutto la figura della madre a essere protetta da uno specifico tabù, che la voleva totalmente buona ed amorevole, a essere censurati, rimossi, erano tutti i segnali che potevano dimostrare l’esistenza, accanto all’amore, di una aggressività altrettanto intensa.
In tempi più vicini a noi, l’idealizzazione della figura materna sembra aver ceduto il passo a riconoscimenti più realistici, senza per questo aver incrinato il più solido e duraturo dei pregiudizi: quello che vuole potente e irresistibile, o meglio istintiva e senza limiti, la dedizione della madre alla felicità del figlio. L’immagine dell’ “anitra norvegiana” (il pellicano) che “sotto il cielo di ghiaccio si strappa dal petto le mollissime piume per farne un nido caldo ai suoi piccini” -evocata da Paolo Mantegazza per descrivere il sacrificio delle madri, chiamate a vivere della vita altrui e a non serbare a sé che la felicità degli altri -, nonostante sia passato oltre un secolo, non sembra avere ancor abbandonato del tutto il sentire comune.
Per questo è particolarmente gradita la parola delle poche donne che con spudoratezza visionaria hanno saputo dare voce a esperienze considerate “impresentabili” della maternità.
Nel suo libro “Smarririsi in pensieri lunari” (Grauss editore, Napoli2007), Agnese Seranis -Agnese Piccirilo, fisica e femminista torinese, morta nel 2008 – scrive:
“C’erano dei momenti in cui sentivi di appartenere alla natura e provavi un tale appagamento sapevi perché esistevi: perché la vita continuasse. Ed eri invasa da un sentimento di forza di potenza immensa. Nel tuo utero era innescato un processo delicato complesso le leggi delle fisica e le leggi della chimica giocavano energia (…) E la percezione a volte di essere divorata da dentro da un estraneo che si era introdotto nel tuo corpo nascostamente e che senza pietà avrebbe fatto scempio di te e che c’era in gioco un duello mortale da cui uno dei due avrebbe potuto uscire perdente. Questo essere così inerme in apparenza ha come alleato la Natura o meglio la vita che giocherà tutto per tutto perché nulla la fermi decisa a lasciarti come un tronco vuoto se ciò fosse necessario al nuovo germe. Per lei non fa differenza se esisti tu o se la tua linfa vitale è stata trasferita a un altro essere.”
Se la cultura maschile ha per un verso svilito la maternità, considerata la “componente carnale dell’uomo”, e per l’altro esaltata quale “divino principio di amore, unità e pace in una vita piena di violenze” (Paolo Mantegazza), Carloni e Nobili fanno notare, più realisticamente, che essa ha imposto alla madre “uno sfibrante esercizio a tempo pieno, una dedizione assoluta, una disponibilità senza limiti, un totale spirito di sacrificio”.
Corpo minaccioso, invasivo e ingombrante per il figlio che si viene a trovare nella posizione di totale dipendenza, la donna vive a sua volta nel timore di essere “vampirizzata” dalle incessanti richieste di lui, privata della sua libertà, costretta a una “cura ininterrotta”. Si può pensare che a rendere la madre che genera e nutre una figura mortifera sia stata la pretesa dell’uomo di prolungare, sovrastandola da una posizione di dominio, l’esperienza dell’infanzia nella vita amorosa e coniugale adulta. Ma non si può trascurare il fatto che difronte all’insopportabilità di una schiavitù imposta come “naturale”, la donna si sia fatta scudo di una potente rivalsa: che il figlio è suo, soltanto suo.
Di fronte al giudizio di chi ancora, di fronte a questi drammi, parla di “madri snaturate”, viene il dubbio che molta strada ci sia ancora da fare per ricondurre il femminile dentro la storia e la cultura patriarcale che ne ha deciso fin dall’origine il destino, che molti miti siano ancora da sfatare per quella collocazione ambigua che ha visto la donna come la “caduta” e insieme la “elevazione morale” dell’uomo.
Inquietante, per venire al contesto in cui viviamo, è il sospetto che, nel sempre più difficile rapporto tra i sessi, i figli, le figlie, non siano più soltanto gli spettatori della violenza domestica, ma l’ “oggetto” attraverso cui passano rancori e vendette tra i genitori, e su cui vanno a confondersi la possessività affettiva delle madri e il potere dei padri.
Staccarsi da secoli culturali che vogliono la donna unicamente madre
Ancora una volta ci troviamo a commentare e a sostenere ciò che ormai dovrebbe essere chiaro a tutte le donne, e cioè che la maternità non è un istinto ma un desiderio: in quanto tale bello, ma anche fragile, esposto alla disillusione e altresì pronto a divenire legame, con tutta l’ambivalenza che il termine porta inevitabilmente con sé. Come ogni desiderio e/o sentimento, anche quello della maternità o della non maternità va rispettato. Perché il rispetto che ogni individuo deve a un altro, lo deve innanzi tutto a se stesso, ai propri sentimenti, alla propria indole, alla propria storia.