Noi maschi e la guerra
Di Gianni Ferronato
L’aspetto più interessante per me del testo avuto da Alberto è condensabile nella domanda
del perché sia così difficile trapiantare una seria ricerca sulla relazione tra
mascolinità e guerra all’interno del movimento pacifista. Il pacifismo dovrebbe
essere un terreno già pronto e fertile per una tale ricerca, eppure non è così.
Capita che venga accettata una serata sul tema ma poi nessuno raccoglie e propone
un approfondimento, almeno così è capitato a me.
Anche la sinistra potrebbe sembrare un terreno più adatto di altri per una riflessione
su mascolinità e violenza, ma anche in questo caso non è così.
Una prima risposta l’ha data Marco Cazzaniga quando dice che teme che anche nel
movimento pacifista venga meno la convinzione che la guerra vada sempre e
comunque rifiutata anche a costo di sostenere dei costi.
Una seconda risposta me la do io quando mi interrogo su come risponderei io in
caso di attacco alla mia persona o a chi mi è caro, perché mi rendo conto che
qualche volta nella mia vita non ho saputo resistere a moti di rabbia, magari solo
verbale. E quindi non sono sicuro di saper reagire sempre senza violenza. Lo vorrei
con tutte le mie forze, ma ne avrò a sufficienza?
So che in questi casi serve molto la consapevolezza sulle proprie emozioni e sulle
situazioni che le scatenano.
Forse serve anche un impegno “pubblico” di rinuncia alla violenza, come potrebbe
essere dircelo tra di noi. Chissà perché io senta sempre una certa resistenza nel dire
pubblicamente, io non sarò così, io non voglio reagire cosà, quasi non fossi certo di
come potrei essere. Eppure sono convito che potrebbe essere una forza in più.
Un impegno che per essere efficace deve essere anzitutto un impegno personale, di
ciascuno.
Perché anche l’Italia ripudia la guerra eppure continua a farla anche se
indirettamente.
Riflessioni sulla guerra in Ucraina
di Marco Cazzaniga
Se ci limitiamo ad analizzare le ragioni degli uni e degli altri, gli errori e i torti degli uni e degli altri,
penso che non riusciremmo a dire cose molto diverse da quelle che ascoltiamo nei vari dibattiti
televisivi.
Il mio timore è che, anche nel movimento pacifista, venga meno la convinzione che la guerra vada
sempre e comunque evitata.
L’unica cosa che in proposito mi sento di dire, perché ne sono convinto e desidererei che fosse il
pensiero di tutti, è che la guerra, ogni guerra, anche quella di difesa, è uno strumento che non va
più assolutamente usato. E se qualcuno la guerra me la fa, devo cercare ogni altro strumento per
fermarla, anche sostenendo dei costi, ma non ricorrere allo stesso strumento guerra.
Certo, la scelta migliore è quella della prevenzione, ma la sua necessità non va scoperta a posteriori,
quando la guerra è già in atto. Bisogna usare l’intelligenza e soprattutto la coscienza, la
capacità morale per capire per tempo come è meglio muoversi per continuare ad avere relazioni
non distruttive tra le Nazioni.
E tra gli strumenti di prevenzione c’è sicuramente il dialogo, la trattativa; e il dialogo, la trattativa
sono anche gli strumenti per uscire dalla guerra quando ci siamo caduti dentro perchè incapaci di
prevenirla.
Una semplice domanda: nel caso specifico di questa guerra, che differenza c’è tra il trattare sulle
condizioni che poneva la Russia prima e il dovere trattare, a guerra finita o sospesa, sulle
condizioni (probabilmente peggiori) che la Russia porrà. La differenza è data da migliaia di morti e
feriti, donne e bambini compresi, oltre che la distruzione e la rasa al suolo di un intero Paese.
Tra i motivi per cui queste riflessioni non vengono prese in considerazione, c’è sicuramente il fatto
che la guerra ha a che vedere con il genere maschile.
Allora il discorso, diverso da quello che normalmente viene fatto, è di riflettere sulla natura
maschile della guerra, sul rapporto che c’è tra violenza, guerra e il genere maschile, rendersi conto
che guerra e violenza sono nella cultura del patriarcato.
Fondare le relazioni sul rapporto di forza l’abbiamo ereditato dal patriarcato. Fondare le relazioni
sulla comunicazione che tiene conto di diversità e differenze fa parte di un modo nuovo di stare al
mondo maschile che possiamo apprendere meglio dalle donne, dal loro modo di stare al mondo
che è molto più attento degli uomini alla cura, alle relazioni e alla comunicazione.
Un contributo
di Marco Sacco
Ciao amici,
ho letto solo ora i due testi, quello mandato da Alberto e le considerazioni di Marco Cazzaniga
Ho ritrovato al loro interno le riflessioni che faccio anche tra me e me. Proprio tra me e me, nel
senso che da un lato la situazione di conflitto e guerra mi interroga e dall’altro non partecipo a
momenti di discussione pubblica su questo tema.
Dentro di me, comunque, ancora si confrontano le due schiere di chi ritiene che la guerra debba
scomparire dalla faccia della terra e di chi prova un’offesa e sente di dover rispondere alla violenza
degli invasori.
Per il momento, trovo un po’ di quiete nel promuovere comportamenti (in particolare collegati al
pensiero della decrescita felice) che reputo possano andare nel senso della prevenzione dei conflitti
violenti. Trovo che la parte peggiore del patriarcato sia evidente nelle logiche di mercato che
mercificano tutto e creano ingiustizie, disuguaglianze e individualismo. Inoltre, ritengo sia
necessario tentare di riconciliarsi con la natura smettendo di sfruttarla per i fini esclusivi del genere
umano. Cura delle relazioni, de-mercificazione dei rapporti e rispetto per tutti i viventi mi paiono un
buon inizio per abbandonare il ricorso alle armi.
Un abbraccio,
Marco
Un contributo
di Gianluca Giraudo
Ho letto con interesse e partecipazione l’articolo elaborato da Alberto, riconoscendomi nella
necessità di condivisione, confronto e anche conflitto, purché non distruttivo, auspicata dall’autore e
da tanti uomini che riflettono su maschilità e guerra. Sento il bisogno, ben descritto dall’articolo, di
collegare le dimensioni della violenza bellica e di genere, caratterizzate entrambe dal protagonismo
maschile. Allargando lo sguardo occorrerebbe comprendere anche la violenza tipica del tifo
sportivo così come di altri contesti che, nonostante i passi avanti della società, si presentano come
inequivocabili e controverse riserve maschili. Spesso mi domando perché troppi uomini siano
reticenti ad ammettere che dove c’è maschilità di gruppo c’è più espressione di violenza:
personalmente mi pare un’evidenza, ma nemmeno ci vedo una colpa. È qualcosa che ha che fare col
modo con cui siamo stati educati e con cui queste forme di aggregazione si sono tramandate nel
tempo… ci parla del gruppo e di qualcosa che si sprigiona in quel momento, non delle persone che
lo compongono. A mio avviso, il paradosso è che, discutendone, si potrebbe arrivare a trovarci
qualcosa di “buono” o quantomeno riconoscibile e accettabile. Nascondere la testa sotto la sabbia di
fronte alla chiamata di responsabilizzazione mi pare una conferma implicita della “tossicità” delle
pratiche di coppia, di guerra, di tifo all’insegna della violenza.
Tornando al contesto bellico, non ho, per educazione e studi, strumenti utili per analizzare le
(s)ragioni di questa guerra, e non mi sono neanche sforzato di darmeli: una scelta, forse un po’
vigliacca, che mi ha consentito e consente di leggere questa tremenda guerra soprattutto dal lato
umano.
Al contrario, la violenza di genere mi interroga da vicino in tutte le sue dimensioni: emotiva, ma
anche sociale, giuridica e storica. Voglio sapere cosa significa, cosa scatena e a quali conseguenze
può portare, quali i suoi nessi con la violenza della guerra. Sento di non aver paura di scoprire il lato
scuro, marcio, mostruoso e indicibile che ritengo appartenga al maschile e ne stimola, alimenta o
richiama le pratiche di violenza. Sento, allo stesso tempo, di non poter escludere completamente di
praticarla nel futuro: mi sento, in poche parole, coinvolto, anche se non so bene in che cosa e in che
misura.
Una “palestra” di riconoscimento l’ho trovata nella lettura di un romanzo recentemente uscito per
Einaudi: La buona guerra di Phil Klay, un ex marine dell’Iraq che ha iniziato a scrivere (già con il
precedente Fine missione) delle ferite e del disorientamento dei veterani che tornano alla vita
urbana dopo gli stravolgimenti della guerra. Dire che sono loro stessi vittime della violenza che
hanno praticato su altre vittime è scontato. Meno lo è, almeno per me, avere il coraggio di
esprimere l’eccitazione, la realizzazione, anche il godimento che alcuni dei personaggi del libro
trovano nella guerra, nel combattimento e nello spargimento di sangue, in quel “duello” che forse è
proprio una parola chiave della questione, come dice l’articolo di Alberto.
Leggere quelle pagine di fiction senza respingerle non è facile. Tuttavia leggerle e accettare che ci
riguardano è, a mio avviso, la cosa veramente difficile.
Riflessioni su Guerra e maschilità
Di Danilo Villa
note/ appunti / sottolineature al documento inviato da Alberto Leiss
Passaggi apprezzati:
• il linguaggio militaresco – la militarizzazione del linguaggio, pervasivo, persuasivo,
propagandistico, ecc nel descrivere e nell’affrontare problemi, schiacciandoli nel paradigma
della guerra allontanandoli da quello del soccorso, dell’intesa, della vicinanza, della cura,
ecc.;
• il contributo identitario che apporta la guerra: le armi giocattolo, i videogiochi, i supereroi,
ecc, che nel corso della crescita ci richiamano alle conferme identitarie maschili;
• la difficoltà del movimento nonviolento all’emersione di una riflessione sulle matrici
maschili delle guerre
• l’utilità di ripartire dai propri stati d’animo, dai sentiment, per uscire dagli irrigidimenti,
incomprensioni, ferite, offese e dalle logiche amico-nemico nel confronto sulle guerre e
nelle analisi geopolitiche
Riflessioni personali considerando gli spunti ricevuti nella discussione del gruppo:
nonviolenza
Apprendere una relazione nonviolenta implica lavorare su di sé per dismettere modalità relazionali
maschili competitive, prevaricanti, tese all’ultima parola, che pretendono che le proprie ragioni,
opinioni, scelte, ecc siano le uniche valide e quelle dell’altro sono tutt’al più dei “torti” e il
compromesso è più una tregua che punto di incontro, ecc . Le dinamiche “amico –
nemico“ tipiche della guerra sono anche dentro le persone;
La nonviolenza è una pratica difficile da percorrere quando ormai i cannoni sparano e la sua
inefficacia appare evidente se misurata sull’urgenza di porre termine al conflitto nel più breve
tempo possibile con la chiarezza di “un vinto e un vincitore”. La nonviolenza non può armare un
altro cannone può solo disertare, dissentire, mettere a rischio la propria incolumità, e cercare altre
forme di “resistenza e di lotta”, accentando il fallimento come esito temporaneo di un percorso
liberante. Anche la trasformazione del maschile che desidera andare oltre al patriarcato si deve
interrogare sulla necessità di dissentire, disertare dalla guerra e dalle forme violente della lotta. La
militarizzazione delle relazioni è la questione comune che riguarda la maschilità e la guerra, anzi i
conflitti in genere;
Resistenza – Difesa della libertà e dei beni comuni
Sulla resistenza italiana la narrazione spesso si sofferma nel suo essere stata soprattutto resistenza
armata partigiana, aiutata e sostenuta da un’adesione civile della popolazione. Grazie ad essa
abbiamo ottenuto di sederci al tavolo dei vincitori: e questa è storia.
Ciò che non ottiene un’altrettanta valorizzazione, nelle lotte di liberazione ( per lo meno in gran
parte di esse) e per la difesa delle libertà, sono le pratiche di desistenza civile ( scioperi ma anche
il boicottaggio, l’obiezione di coscienza, la disobbedienza civile, le marce, ecc) che meno eclatanti
ricevono minore visibilità sebbene indicano modelli di desistenza alla violenza che ne disinnescano
la forza, la veemenza, la brutalità, perché mentre le guerre si sono sempre fatte e il loro
armamentario militare, culturale, economico, ha segnato identità millenarie e strutturato i rapporti
tra i popoli, (come anche il patriarcato) le vie alternative sono state prese in scarsa considerazione
e anche per questo non hanno potuto dispiegare tutto il loro potenziale.
Il modello militare – patriarcale a volte s’incrina sotto i colpi della critica (pacifista e femminista),
per riemergere appena ne ha l’occasione ( p.es. con il liberismo, il nazionalismo, il sovranismo…) e
ci ricorda che le sue alternative per liberarsi dalle griglie identitarie e relazionali costruite sulla
necessità della violenza, implicano l’accettazione dell’imprevisto, l’errore, lo smarrimento, la
perdita, l’inefficacia. Vige tutto un armamentario linguistico, monumentale, celebrativo,
romantico anche sulla resistenza che li considera disvalori.
C’è armamentario maschile – militaresco dentro di noi che sorveglia la nostra adesione ad un corpo
di principi e valori ardimentosi, virili, stoici. Per fare un esempio in una mostra sulle staffette
partigiane medaglia d’oro , sui profili si scrive: “ cadde sotto il piombo nemico unendo il suo
olocausto alle luminose tradizioni di patriottismo nei secoli fornite dalle donne d’Italia – eroina
purissima degna delle virtù delle italiche donne , fu faro luminoso per tutti i Patrioti bolognesi nella
guerra di liberazione – condotta al supremo sacrificio, l’affrontava con la calma dei forti dando
mirabile esempio del come la gente Friulana sa servire la Patria e per Essa morire…ecc.”
Guerra e corpi
• il corpo è luogo e arma di violenza (il kamikaze) :
• luogo dove orientare il disprezzo, lo spregio e ogni possibile atto mutilante;
• arma e strumento di violenza: corpo che stupra (le donne in guerra e/o nei rapporti di
vicinanza);
• il corpo oltraggiato del nemico, in battaglia rafforza il mito del vincitore.
• Il corpo preparato nello sport, come nel duellare, è allenato, addestrato, disciplinato,…
(nelle prime olimpiadi le gare ritualizzavano la guerra: il lancio del giavellotto, del peso, del
disco, la corsa, la lotta, ecc).
• Il corpo scolpito: lo stereotipo del modello del David di Donatello: atletico, potente, virile,
bello, e soprattutto , differente da quello femminile che tende alle armoniose rotondità.
• …
Per continuare
Dizionario per trasformare il maschile e depotenziare i conflitti
Danilo