Femminile Maschile Plurale Cultura,News Fotografia e femminismi. Storie e immagini dalla collezione di Donata Pizzi

Fotografia e femminismi. Storie e immagini dalla collezione di Donata Pizzi

a cura di Serena Simona

Appassionata: è un termine onorevole e dovuto a Donata Pizzi – fotografa professionista, editor e collezionista di foto – il cui amore per la storia delle donne in rapporto alle immagini ci permette di gustare una mostra selezionata, interessante, che non vorremmo terminasse così presto. Fotografia e femminismi – curata da Federica Muzzarelli e ospitata alla fondazione Sabe per l’arte di Ravenna – rappresenta infatti solo una piccola incursione fra le centinaia di scatti e i libri fotografici, realizzati dagli anni ’70 ad oggi da più di 70 fotografe attive in Italia, che sono stati acquisiti da Pizzi da circa una decina di anni in qua, quasi sempre contattando direttamente le artiste. In mostra sono presenti alcune fotografie artistiche realizzate 50 anni fa insieme ad altre più recenti che rispecchiano il senso con cui è stata costruita la collezione: dare visibilità al lavoro di fotografe di generazioni diverse che condividono posizionamenti e temi o incrociano sensibilità simili. I cinque nuclei tematici della mostra – dedicati alla costellazione familiare, alle identità di genere, agli stereotipi e agli spazi domestici, ai ruoli e alle censure sociali, infine all’immaginario femminista – rispecchiano il filo rosso di un’arte di donne disposte a misurarsi sui grandi nuclei di pensiero esplorati dal femminismo degli anni ’70 che ricalcano in parte gli argomenti sottolineati con lucidità da Paola Mattioli. Li pubblicava discutendo l’ambito della fotografia nell’ultimo dei sei volumi del Lessico politico delle donne (1979).

Come mai la fotografia sia stata – fra i linguaggi artistici del femminismo anni ’70 – quello più amato e utilizzato dalle artiste è argomento ancora da esaurire. Fin dal suo nascere la fotografia va incontro alle donne: agli esordi è una tecnica considerata marginale e non artistica, che si può lasciare professionalmente alle donne. Ma i collegamenti fra queste pioniere e gli anni ’70 attraversano un orizzonte troppo distante. Contestualizzando agli anni ’70, occorre tenere in mano molti fili a partire dalla condanna dell’arte e delle persone che lavorano in questo campo da parte di Carla Lonzi, una delle menti più lucide del femminismo italiano. All’apertura del decennio, per lei non possono esistere mediazioni con l’ambito creativo, colonizzato profondamente e da secoli da uno sguardo patriarcale: assumendo questa posizione non ci possono essere concessioni all’arte, soprattutto da parte delle donne. Ma non tutte condividono la condanna e numerose tenteranno altre vie: le mostre separatiste, la decostruzione dell’immaginario, l’analisi dei mezzi tecnici e delle immagini. La fotografia, una tecnica giovane, praticata storicamente anche da donne, meno inquinata e codificata della pittura percepita quasi di esclusivo dominio maschile, può costituire una buona mediazione che evita di utilizzare i linguaggi più alti e colonizzati della tradizione.

Il mezzo fotografico può avere riscosso successo anche per la sua prossimità ad alcune pratiche e tematiche femministe: se pensiamo all’importanza dei gruppi di autocoscienza e di una narrazione del mondo sempre a partire dal sè, alla necessità di decostruire gli stereotipi e lo sguardo patriarcale, allo studio applicato all’autorappresentazione – con la consapevolezza dei ruoli di chi guarda e chi è guardato -, alla rivendicazione della dimensione del corpo e della fedeltà a se stesse, all’abbattimento della barriera fra le due sfere del personale/politico e alla centralità di un approccio relazionale, si può comprendere perchè la fotografia abbia avuto una forte presa su quella generazione. Le sue caratteristiche di duttilità, velocità e di controllo dell’utilizzo possono prestarsi a mantenere la fedeltà autobiografica, rappresentare in modo diretto il corpo e prestarsi in modo adeguato al rapporto col linguaggio assecondando un binomio concettuale molto amato dalle artiste italiane. La sua facilità di manipolazione permette inoltre di scambiare i ruoli di chi scatta e di chi è oggetto dello sguardo, di mantenere la dimensione relazionale e quella corale di gruppo. Può inoltre prestarsi a una dimensione narrativa, autobiografica mentre la selezione delle immagini permette di procedere anche a posteriori con un’analisi decostruttiva, attivata tramite un’azione lenta e condivisa: il controllo delle immagini è anche controllo di chi sono, di come voglio rappresentarmi, senza mediazioni o cedimenti ai codici visivi e ai modelli più influenti, garantire l’esistenza di un punto di vista soggettivo e diverso.

In mostra, la prima sezione Album di famiglia condivide il desiderio di cambiare i valori attribuiti alla grande storia – profondamente patriarcale – e alle microstorie personali, doppiamente invisibili perchè marginali e appartenenti a donne. Gli scatti del 1977 di Tomaso Binga/Bianca Menna non solo decostruiscono l’approdo tradizionale al matrimonio della narrazione di genealogie femminili ma introducono la sfida e l’inquietudine dello sdoppiamento del sè nella presentazione dell’artista nelle due versioni maschio/femmina. Nella stessa sezione sono presenti i lavori recenti di Moira Ricci e Alba Zari, nate fra il 1977 e il 1987, che srotolano la propria autobiografia in una cornice malinconica alla ricerca rispettivamente della propria madre – osservata in una mistificazione fotografica in altro tempo, altro luogo – e del padre, perduto e ricostruito virtualmente attraverso una ricerca fotografica e documentaria che assorbe il desiderio.

Le sezioni successive della mostra nascono da alcuni approfondimenti del pensiero femminista che a volte ha tematizzato gli altri soggetti opachi della storia patriarcale: famosa e intensa è la serie Travestiti di Lisetta Carmi, eseguita alla fine degli anni ’60 e basata sulla sua relazione di amicizia con la comunità trans di Genova. Pur trovando una coraggiosa casa editrice per la pubblicazione, il libro di Carmi vide il rifiuto di esposizione e vendita da parte di numerose librerie su tutto il territorio nazionale. Con la medesima freddezza, la censura rimane attiva ancora oggi come sottolineano gli scatti della fiorentina Martina della Valle (1981) che in una serie realizzata una decina di anni fa testimonia come non sia tanto la nudità del corpo femminile ad essere disturbante – non si spiegherebbe altrimenti la storica quantità di nudi di donne nei musei del mondo – quanto invece l’evidenza fisica e dettagliata di un corpo non bello, stremato perchè appena uscito dalla sala parto, come spudoratamente evidenziano le belle immagini – rigorosamente censurate da post-it – della collega e fotografa olandese Rineke Dijkstra.

Nonostante tutto, il registro ironico è comune fra le artiste degli anni ’70 come si vede nella serie di foto Pin Up (1965) di Lucia Marcucci e nel ready-made modificato di Paola Mattioli del 1974, la cui destinazione come dono al padre fa parte integrante dell’intenzionalità estetica/politica del lavoro. Affamate di vita, di libertà, le donne declinano anche nei titoli uno humour sottile: il libro Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo esce nel 1978 grazie anche al coraggio dell’editore Gabriele Mazzotta. Alcune maquette in mostra chiariscono che il progetto supera ampiamente il concetto di libro: è piuttosto un luogo concreto dell’immaginario delle sette artiste – fra cui Paola Mattioli e Diane Bond – appartenenti al gruppo femminista che si riunisce negli anni ’70 ogni mercoledì a Milano. I capitoli – organizzati sia individualmente che collettivamente in uno scambio continuo di ruoli, da soggetto a oggetto della visione, da rilfessione dialettica di sè nello sguardo dell’amica – mettono continuamente a confronto gli ambiti dell’immagine e del verbale. Andrebbe sempre ricordato e riconosciuto l’enorme lavoro di esplorazione, decostruzione e ricostruzione dei codici linguistici e visivi svolto da questa generazione di donne – attiviste, complici o semplici fiancheggiatrici – che hanno dato per la prima volta spessore e visibilità al soggetto imprevisto della storia umana.

Fotografia e femminismi. Storie e immagini dalla collezione di Donata Pizzi – fino al 15 dicembre 2024 – Ravenna, fondazione Sabe per l’arte, via Pascoli 31 – orari: GIO-DO 16-19 – ingresso libero