Testo della curatrice Serena Simoni
Le alluvioni di maggio 2023 hanno imposto domande sul futuro del nostro territorio, in particolare sul
rapporto con l’ecosistema da cui dipendiamo. Oltre alla fatica della ricostruzione occorre affrontare il peso
dei bilanci nonostante la tendenza a voltare pagina di fronte ad un disastro sia molto umana. Fissare il
danno negli occhi è l’unico modo per capire quanto è successo, per ripensare il modo in cui viviamo e
assicurarci un futuro. Fin da subito dopo il disastro si è attivato un lavoro di documentazione che ha
testimoniato e oggettivizzato l’enormità dell’accaduto: protagonisti sono stati donne e uomini che hanno
impiegato la fotografia fra arte e documentazione, non solo per dimostrare lo strazio di una regione. Fra
questi, Andrea Bernabini ha pagato il pegno di abitare in una zona alluvionata e – dopo il primo intervento
per salvare casa e studio – ha cercato una risposta al danno tramite la propria attività artistica. Il lavoro è
iniziato con una serie di videointerviste ad alcune vittime dell’alluvione ma la condivisione col dolore delle
persone ha costretto l’artista a fermarsi, a riconsiderare la capacità di sostenere un progetto fin troppo
coinvolgente. Sono stati necessari alcuni giorni di pausa prima di riprendere il lavoro che si è condensato in
tre nuclei – esposti in selezione a Palazzo San Giacomo – che comprendono le videointerviste, i dittici
fotografici e una serie di immagini iconiche. La mostra Il segno dell’acqua comprende quindi una serie di
brevi e intense interviste video a persone che hanno perso tutto e hanno visto intaccate le basi della
propria identità: nelle parole dolorose di chi ha perso assieme al presente l’intero passato si innerva quella
ossessiva “riga dell’acqua” che segna ogni elemento verticale sopravvissuto al fango e ricorda il molto, il
tutto che si è perduto. La serie dei dittici – I volti dell’alluvione – opera su binomi di persone e spazi o oggetti
in cui il bilanciamento compositivo millimetrico rafforza la cortina di ferro che conserva la perdita. La teoria
di persone abbinate in modo preciso per luce, toni, colori, a spazi e oggetti si offrono come un atlante delle
emozioni che fissa per sempre l’avvenimento: quel che resta di uno strumento musicale, una stampa della
Madonnina del riposo del Ferruzzi sopra la linea dell’acqua, lo spazio di quello che era un ambiente
domestico sono i testimoni dello sfregio e un ricordo trasformato in ferita. Paradossalmente esiste una
bellezza anche negli scatti iconici della terza parte progettuale che cattura le orme dell’alluvione come le
terre trasformate in deserti di fango, le strisce chilometriche di rifiuti post alluvione nelle discariche, le rosse
maree di materiali inquinanti riversati in mare. Osservando gli scatti che scandiscono geometricamente
quelli che erano filari, un campo da gioco ora di tonalità Siena, un parco trasformato in una Venezia senza
controllo, si rileva un ordine e una bellezza paradossali scritti nel fango e sulla carne del paesaggio. L’arte
imprigiona questa incoerenza emozionale insieme all’incommensurabilità del danno offrendo così una
strategia per sostenere l’accaduto e non esserne sovrastati. C’è quindi una possibilità di bellezza anche nel
disastro: Burri a Gibellina ha trasformato un terremoto, le vittime e la fine di una comunità in un’opera
monumentale indicando il sentiero di una bellezza che onora per sempre la memoria della perdita.