Femminile Maschile Plurale Articoli di femministe L’aborto: una libertà, oltre che un diritto

L’aborto: una libertà, oltre che un diritto

Non sempre la libertà diviene un diritto riconosciuto. Da sempre le donne hanno abortito, nascostamente, pericolosamente. Da sole o con complicità, a volte solidali, a volte pelose, con l’odore dei soldi.

C’è voluta la rivoluzione femminista che, al diritto al voto e al lavoro, ha aggiunto la piena e indiscutibile padronanza del proprio corpo. Una libertà da riconoscere per legge. Come sempre, le leggi arrivano per ultime, dopo secoli o decenni. Né mai spuntano per caso, ma fioriscono su un terreno, per quanto accidentato e imperfetto, “lavorato” da parole e lotte, instancabili. Ma il tempo per la legge 194, per quanto lungo, fu breve. Centinaia di anni per i diritti umani, e per il voto alle donne. Meno di due decenni la libertà non più clandestina di potere abortire. Certo, sono comprensibili le diffidenze per le leggi. Se – ma c’è veramente chi lo pensa? –  si affida a una legge il potere taumaturgico della cancellazione di ogni incomprensione, ostacolo o vergogna, le smentite sono sempre dietro l’angolo.

Come Lea dice, è una vergogna civile e politica che lo Stato, che è di tutt* – dovrebbe esserlo -,  non risolva la questione della obiezione di coscienza della quasi totalità dei medici. La loro coscienza impedisce la libertà di coscienza di molte donne. Una bella contraddizione. Quindi, nel ribadire che la legge 194 vogliamo tenercela, propongo che si metta mano a un emendamento della legge, che la migliori e renda la libertà di coscienza e di autodeterminazione di ogni donna un dato di realtà acquisito. In via definitiva?  Lo spero, pur sapendo che nella storia, come vediamo anche per molto altro, nulla è immobile e per sempre.

Paola Patuelli

28 settembre, giornata internazionale dell’aborto sicuro

LEA MELANDRI

L’aborto: una libertà, oltre che un diritto

Il Riformista sabato 21_settembre 2021

L’interruzione di una gravidanza indesiderata, qualunque siano le ragioni della scelta, è una libertà delle donne, che hanno conosciuto per secoli la maternità come “obbligo procreativo, e che solo in tempi relativamente recenti sono riuscite a cancellare la norma che considerava l’aborto un “reato contro la stirpe”. Io appartengo a quella parte di femminismo che non ha sottoscritto lo slogan posto come titolo al saggio della Libreria delle donne di Milano, “Non credere di avere dei diritti” (Rosenberg & Sellier, 1987). Penso che le leggi siano importanti e che abbiano un valore forte nel momento in cui danno riconoscimento e visibilità a cambiamenti materiali e simbolici in atto. Tali sono state la legge sul divorzio del 1970, confermata dal referendum abrogativo del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, e la Legge 194 che garantiva un aborto “libero e sicuro”. Pur non essendo pregiudizialmente contraria, ritengo tuttavia che la conquista di diritti non basti di per sé a scalfire a fondo norme e comportamenti che hanno alle spalle la pesante eredità di rapporti di potere passati quasi indenni attraverso epoche e culture diverse. A ciò si aggiunge il fatto che talvolta sono le donne stesse a non volerne usufruire. Lo faceva rilevare già all’inizio del Novecento Sibilla Aleramo: “Ch’ella chieda un uguale compenso e un uguale rispetto è logico e giusto, com’è naturale che pretenda gli stessi diritti civili e politici. Ma tutto questo avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna: è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica..” (S.Aleramo, “La donna e il femminismo”, Editori Riuniti, 1978).

Buona profetessa, coscienza femminile anticipatrice, Sibilla aveva colto una delle contraddizioni che si sarebbero ripresentate nel femminismo degli anni Settanta, quando le pratiche politiche anomale dell’autocoscienza e dell’inconscio hanno dovuto affrontare il rapporto tra il corpo, la sessualità e la legge. Nell’incontro che si tenne al Circolo De Amicis a Milano, nel febbraio 1975, la resistenza a fare dell’aborto una battaglia di diritti, insieme a forze politiche organizzate, emerse in modo esplicito: “E’ venuto alla ribalta questo argomento dell’aborto, per delle ragioni che in parte passano sulle nostre teste, cioè in una politica di tipo tradizionale, fatta anche da gente coraggiosa, che però segue la sua logica e ci siamo state come coinvolte. Per forza, perché è una cosa che ci riguarda in prima persona e tutti vogliono in questo momento coinvolgerci, dai preti (…) i vari partiti, i gruppi di opinione, sinistra extraparlamentare, ecc. (…) il ritrovarci tra noi significa che noi affrontiamo questa tematica nei modi politici che sono nostri (…) non è nel nostro interesse trattare del problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, ed a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo.” (“Sottosopra rosso”, fascicolo speciale 1975). Ad approdare alla coscienza di una generazione cresciuta nell’idea della ‘naturale’ coincidenza tra sessualità e procreazione, fu allora una verità che si stenta ancora oggi a venire allo scoperto, e cioè che unica sessualità riconosciuta è stata a lungo solo quella maschile, riproduttiva, associata al potere di imporla anche con la forza, e quindi di provocare gravidanze indesiderate. Ne è prova il fatto che, quando si parla dell’aborto, non viene mai nominato l’attore primo di quello che continua ad apparire come un “dramma” con una protagonista unica.

In realtà, l’uomo c’è, c’è come figlio potenziale, promessa racchiusa in quel “tu” che “deve ancora diventare persona”, ma che la “tutela del concepito”, prevista dall’articolo 1 della Legge 40, ha fatto assurgere a soggetto titolare di diritti, primo fra tutti il “diritto a nascere”. Ciò significa, di conseguenza, che la donna deve portare avanti al gravidanza,”costi quel che costi”. Se, nonostante il riconoscimento giuridico che lo ha depenalizzato come crimine e regolato con la Legge 194 del 22 maggio 1978, l’aborto incontra oggi l’ostacolo rappresentato dall’enorme numero di medici che praticano l’ obiezione di coscienza, dalle campagne per la difesa della “famiglia naturale”  e della purezza etnica, minacciata dalla denatalità crescente e dalle migrazioni, è perché non se ne affrontano con la necessaria radicalità le radici immaginarie, ataviche, che rendono lenti e contrastati i cambiamenti delle storia. Al fondo del conservatorismo religioso e della demagogia misogina dei partiti della destra in cerca di consensi, si può pensare che operi ancora inconsciamente l’ombra di quel corpo femminile che può dare la vita e la morte, il corpo diverso dal suo che l’uomo incontra nel momento della sua massima dipendenza e inermità, e che solo con l’instaurazione di un dominio ha creduto di poter controllare. Un’ossessione, si potrebbe dire, che ricorre in molti Paesi del mondo, e che impegna le donne in battaglie continue, sia dove ancora non esiste una legge che depenalizzi l’aborto, sia dove, per la difficoltà a cancellarla, come in Italia, si ricorre all’espediente più facile: agire sui sensi di colpa profondamente inculcati nel vissuto femminile da secoli di obbligo procreativo. Chi ignora infatti che le donne sono sempre state giudicate duramente, se facevano o non facevano figli, se ne facevano troppi o troppo pochi, se segretamente si accorgevano di desiderare un piacere sessuale proprio, indipendente dalla procreazione? “Egoiste”, “assassine”, “zoccole”, sono gli insulti più frequenti con cui si tenta di far passare l’aborto come “questione morale” e non politica, per non dover riconoscere che quello che per gli uomini è soltanto un piacere, spesso ottenuto con la forza, per le donne è la nascita indesiderata di un figlio che cambierà per sempre la loro vita. Come per altre “Giornate”, istituite dagli massimi organismi mondiali per stigmatizzare e prevenire la violenza contro le donne,  difendere diritti e libertà strappate a millenni di patriarcato, anche quella del 28 settembre per l’ “aborto sicuro”, avrà comunque l’effetto di tenere vivo un aspetto non secondario del rapporto tra i sessi, che rischia continuamente la cancellazione.

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