articolo di Marina Mannucci
Mi sono state inviate dal Coordinamento Ravennate “Per il Clima – Fuori dal Fossile” immagini e video di Glasgow invasa con gioia dai Fridays for Future provenienti da tutto il pianeta. Un’occasione per riflettere su quali sono e saranno gli effetti della crisi climatica e del venefico modello estrattivista.
L’Unep (United Nations Environment Programme), il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, ha da poco prodotto un documento che sintetizza l’inazione sul fronte della tanto declamata de-carbonizzazione. Vi si legge che la produzione globale di carbone, petrolio e gas deve iniziare a diminuire immediatamente e bruscamente per essere coerente con la limitazione del riscaldamento a lungo termine a 1,5°C. Ma, a tutt’oggi, i governi continuano a pianificare e sostenere livelli di produzione di combustibili terribilmente elevati e addirittura previsti in aumento nei prossimi anni.
Dopo aver osservato le immagini delle migliaia di persone alla marcia Fridays for Future e aver ascoltato le interviste di attiviste e attivisti delle aree più colpite dalla crisi climatica (Mapa, Most Affected People and Areas) che raccontano storie di fame, disastri naturali, omicidi politici e che accusano il Global North (i paesi ricchi) di sfruttare i loro Paesi e di non aiutarli a combattere la crisi climatica, appoggiando invece i tiranni locali, è evidente che non si può parlare di forzature ideologiche o radicalismo. Un drastico e immediato taglio delle emissioni è indispensabile e per farlo dobbiamo cambiare fondamentalmente la nostra società. Del resto, subito dopo la pubblicazione del sesto report dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) sul riscaldamento globale, il segretario delle Nazioni Unite António Guterres aveva detto: «È un codice rosso per l’umanità».
È indubbio che riuscire a soddisfare l’obiettivo globale in materia di clima di rimanere al di sotto di 1,5° C implica un enorme salto nella produzione di energia a basse emissioni di carbonio e l’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Tale passaggio sortirà un forte impatto sui posti di lavoro in ambito energetico, facendo calare i posti di lavoro nel settore dei combustibili fossili e al contempo impennare l’occupazione nelle nuove industrie dell’energia. Nelle più importanti università del mondo, da anni, sono stati avviati studi (pubblicati e facilmente reperibili sul web) che forniscono informazioni approfondite su cosa dovrebbe offrire una transazione giusta ai lavoratori e alle comunità interessati. In un’intervista al premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, pubblicata il 5 novembre dal quotidiano “la Repubblica”, l’economista statunitense afferma che, «Se ben gestita, la transizione si può trasformare in una grandiosa occasione di nuova occupazione e nuovo sviluppo». Stiglitz sostiene inoltre, che le forze che remano contro la svolta verde sono forti ed esorta la Banca Mondiale a «focalizzare i suoi interventi sulla sostenibilità ambientale».
Pensare il mondo dividendolo in categorie di opposti è un’attitudine secolare e di solito il secondo dei due termini è definito dal primo e vale meno. È così che abbiamo imparato a separare più che a mettere in relazione le cose, arrivando a pensare che gli umani, intesi come esseri prevalentemente maschili, potessero esercitare il controllo su tutto, incluse le donne, con una corrispondente leadership ancora marcatamente maschile nella gestione dei beni comuni.
Numerosi studi sugli effetti causati dal cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo hanno dimostrato come le differenze di genere influenzino, da un lato, gli impatti e la vulnerabilità e, dall’altro, le opportunità e la resilienza ambientale. L’assioma è semplice: i paesi più poveri del pianeta sono oggi i più vulnerabili agli effetti del riscaldamento globale, e, in questi paesi, sono le donne a essere le più colpite dalle conseguenze del dissesto climatico, in quanto componente più debole della società.
Secondo uno studio pubblicato sul “Journal of industrial ecology”, gli uomini hanno un’impronta ambientale maggiore del 16% rispetto alle donne, eppure sono le donne a subire le conseguenze sempre più nefaste del clima che cambia. Basti pensare alle migrazioni forzate indotte dall’aumento dei fenomeni climatici estremi (l’80% delle persone sfollate a causa del cambiamento climatico è costituito da donne), all’aumento della povertà, delle violenze sessuali e delle malattie.
È evidente quindi come il degrado ambientale provocato dal riscaldamento globale, sia in termini di scarsità che di inquinamento delle risorse, abbia un impatto diretto sulla vita e sulla salute di milioni di donne in tutto il mondo.
In un’intervista al “New York Times”, Katharine Wilkinson (co-editrice del libro All we can save. Truth, Courage, and Solutions for the Climate Crisis, New York, One Word, 2020 – un’antologia sul clima scritta da sessanta donne) spiega perché abbiamo bisogno di una leadership climatica femminile e femminista: «Dove questo esiste, le leggi ambientali tendono ad essere più stringenti, i trattati ambientali ratificati più di frequente, gli interventi di politica climatica più efficaci». Nel libro si trovano storie di donne che, in ogni campo, si impegnano nella ricerca di soluzioni climatiche, esempi concreti di femminismi contemporanei perché, come commenta Wilkinson, «se vuoi essere una femminista su un pianeta che sta bruciando, devi essere una femminista del clima».