di Annamaria Rivera
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pubblicato il 18 marzo 2023
Per cominciare, conviene proporre una definizione di razzismo, sia pure imperfetta. Quella che suggerisco è la sintesi della voce che scrissi per il Grande Dizionario Enciclopedico UTET. Il razzismo – scrivevo – è definibile come “un sistema di credenze, rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche e atti politici e sociali, volti a stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare e/o sterminare categorie di persone alterizzate”. A mio parere, il termine “razzismo”, al singolare, è preferibile a “razzismi” (molto in voga, anche a sinistra), se vogliamo definire il carattere unitario del concetto, al di là delle variazioni empiriche del fenomeno.
Il razzismo (al singolare) è anche un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze economiche e sociali, nonché giuridiche e di status, che viene riprodotto, avvalorato, legittimato da norme, leggi, procedure e pratiche routinarie: ciò che in altre parole è detto razzismo istituzionale . Il quale finisce per generare una stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse economiche, sociali, materiali e simboliche (lavoro, status, servizi sociali, istruzione, conoscenza, informazione…). Occorre sottolineare, infatti, l’importanza dei dispositivi simbolici, comunicativi, lessicali che sono in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze.
Quanto alla nozione di “razza” – criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla – essa è una categoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali. “Razza” non è altro che una metafora naturalistica, per dirla con la formula di Colette Guillaumin, sociologa femminista, autrice de L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel (1972): una delle opere migliori che siano state scritte sul mito della razza e sul razzismo, ciò nondimeno tradotta in Italia assai tardivamente, nel 2022 . Tale metafora è adoperata per naturalizzare non solo le persone alterizzate , ma anche lo stesso processo di svalorizzazione, stigmatizzazione, gerarchizzazione, discriminazione ai danni di taluni gruppi, minoranze, popolazioni.
Nel razzismo odierno, che si è convenuto di definire “neo-razzismo”, il determinismo biologico-genetico è spesso sfumato, talvolta dissimulato. Al fine di giustificare ostilità, disprezzo o rifiuto degli altri e delle altre, di attuare e legittimare pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione, fino allo sterminio, perlopiù si essenzializzano differenze o presunte differenze, sociali, culturali, religiose, così da concepirle come a-storiche, assolute, immutabili.
Nondimeno, conviene ricordare che già l’antisemitismo moderno era solo in apparenza culturalista e differenzialista: ha ragione Etienne Balibar a sostenere che «il neo-razzismo può essere considerato, dal punto di vista formale, come antisemitismo generalizzato».
Di conseguenza, conviene non assolutizzare neppure l’assunto secondo il quale il razzismo dei nostri giorni sarebbe senza razze. In realtà, gli slittamenti, il mélange, i passaggi dal razzismo biologista a quello detto culturalista, ma anche viceversa, ci sono sempre stati, ci sono tuttora, sono sempre possibili: al momento opportuno può riemergere l’immaginario sedimentato della “razza”.
Faccio due esempi. Pensate all’impiego corrente della nozione di etnia. Spesso, nell’uso che ne fanno i media, non è altro che un mascheramento di “razza”, per meglio dire un suo sostituto funzionale eufemistico. Altrimenti non si comprenderebbe perché mai in certi lessici giornalistici italiani, anche mainstream o perfino decisamente di sinistra, possano ritrovarsi espressioni paradossali quali “individuo di etnia cinese” o “di etnia latino-americana”.
Insomma, gli altri e le altre, non sono nominabili – simmetricamente al noi – secondo la nazionalità e la loro singolarità, poiché si pensa che appartengano a un’entità collettiva diversa, primitiva o primigenia: l’”etnia”, cioè la “razza”.
Tuttavia, vi è un caso recente che illustra come “etnia” sia usato esplicitamente, anche in rapporto al noi, come sinonimo di “razza”. È quello del leghista Attilio Fontana, attuale governatore della regione Lombardia, che, da candidato, affermò, in perfetto stile Ku Klux Klan: “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca (…) devono continuare a esistere o devono essere cancellate”.
In realtà, in Italia come in Francia, soprattutto a partire dal 2013 e ora più che mai, si assiste a uno sconcertante ritorno della stessa “razza”, evocata da immagini e rappresentazioni del tutto simili a quelle che potevano trovarsi nelle pubblicazioni popolari al servizio della propaganda fascista e colonialista: anzitutto il topos che assimila i “negri” a scimmie, col classico corollario di banane.
In Italia, dileggi e ingiurie di tal genere s’intensificarono in modo martellante e quotidiano, soprattutto al tempo del governo Letta prendendo a bersaglio, in particolare, la ex ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge, di origini congolesi: nel 2013 il leghista Roberto Calderoli osò pubblicamente compararla a un “orango”.
Non fosse altro che per questo, alquanto discutibile appare l’impegno profuso da taluni/e studiosi/e, soprattutto francesi e italiani/e, che si rifanno alla “Critica postcoloniale”: una tendenza diretta a reintrodurre il termine e la nozione di razza nel lessico delle scienze sociali, in tal modo vanificando quasi un secolo di paziente lavoro critico volto a decostruirli. Per citare solo l’ambito dell’antropologia culturale, è almeno a partire dagli anni ’30 del Novecento che la “razza” inizia a essere confutata da illustri studiosi, soprattutto da antropologi culturali statunitensi, quali Franz Boas e Ashley Montagu, più tardi dal cubano Fernando Ortiz (El engaño de las razas, 1946): quest’ultimo, purtroppo, mai tradotto, quasi sconosciuto, quindi raramente citato.
Incuranti del rischio di ri-legittimare la “razza” al livello del senso comune, i “post-coloniali” la hanno collocata al centro del loro apparato concettuale, sia pur intendendola come costruzione sociale e dispositivo d’inferiorizzazione, subordinazione, esclusione degli altri e delle altre.
Il ragionamento di alcuni di loro è riassumibile nei termini di un sillogismo di questo genere: la retorica dei diritti umani ha fatto della “razza” un interdetto; ma, poiché la discriminazione e il razzismo esistono, per renderli palesi, analizzarli, contrastarli, nominarne le vittime, conviene riesumare il termine di razza.
In verità, qualunque precauzione si prenda, il passato delle parole si sedimenta e persiste: per quanto si faccia lo sforzo di sociologizzarla, “razza” conserverà sempre il significato biologista-determinista che le è stato attribuito nel XIX secolo.
Come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo, qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalla visibilità fenotipica, dalle origini, perfino dalle peculiarità culturali e sociali. Lo stigma applicato a certe categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica. Si pensi alla razzizzazione di cui furono oggetto in Italia i profughi albanesi nel corso degli anni ’90 del Novecento.
Infatti, la stessa percezione dell’evidenza somatica dipende dalla storia, dalla società, dalla cultura. Tant’è vero che vi sono state e vi sono società per le quali quei caratteri fenotipici o morfologici (soprattutto il colore della pelle), che solitamente sono stati e sono assunti come criterio di distinzione fra le “razze”, non avevano (e non hanno) alcun valore tassonomico né valevano/valgono a istituire differenze fra individui e gruppi.
Tutto ciò si manifestò in Italia per la prima volta in forma esemplare nel 1991, a seguito del secondo grande sbarco nel porto di Bari di profughi/e albanesi, che saranno oggetto di un trattamento alla Pinochet (furono rinchiusi nello stadio di quella città). Da allora a variare saranno solo i capri espiatori, prescelti in base alle contingenze politiche.
Oggi, con il governo più a destra della storia della Repubblica, il quale non ha alcun pudore ad assumere il razzismo come parte del proprio programma e a praticare consapevolmente strategie migranticide su larga scala (si pensi allo sterminio del voluto naufragio di Steccato-Cutro), occorrerebbe che la sinistra, intesa in senso ampio, ponesse al primo posto l’antirazzismo e la lotta contro le discriminazioni.
Più volte e da molti anni scrivo del circolo vizioso del razzismo. Cosa intendo dire? Che il razzismo diventa sistemico quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o finanche praticato da istituzioni (oggi perfino dal governo in carica) e da mezzi di comunicazione, non ultimi i cosiddetti social. Ciò per non dire dell’incessante propaganda razzista condotta, in particolare, dall’attuale premier e dal suo ignobile ministro dell’Interno.
Oggi siamo nella fase in cui la formula “circolo vizioso del razzismo” si è fatta terribilmente concreta.
Facciamo qualche esempio, a partire dalla delegittimazione istituzionale, se non criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma pure di chiunque, anche individualmente, compia gesti di solidarietà verso i/le profughi/e o cerchi d’integrarli/e in un progetto condiviso di comunità solidale: come nel caso di Riace e del suo ex sindaco, Mimmo Lucano.
È indubbio che tali esempi di razzismo dall’alto non facciano che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso” (per così dire). Per limitarmi all’Italia, alludo ai numerosi episodi di barricate (reali o simboliche) contro l’arrivo di richiedenti-asilo; ma anche alle numerose rivolte in quartieri popolari contro l’assegnazione di case a famiglie povere, ma non perfettamente “bianche”.
Si consideri che la crisi economica, l’impoverimento crescente di strati popolari, lo smantellamento dello stato sociale, la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, l’indebolimento della socialità, la mediocrità di una politica sempre meno interessata al bene pubblico, producono senso d’incertezza e d’insicurezza, frustrazione e risentimento, che si traducono in ricerca del capro espiatorio.
È perciò che il razzismo “dal basso” potrebbe essere definito come effetto della socializzazione del rancore, per citare Hans Magnus Enzensberger; e non già in termini di sentimenti come paura od odio (quest’ultima parola è entrata perfino nel lessico d’istituzioni internazionali e di Ong: hate speech, hate crimes).
In questi casi l’ingannevole formula della “guerra tra poveri” non potrebbe essere più assurda, visto che spesso, a istigare e guidare tali rivolte, sono militanti di estrema destra. Qui il circolo vizioso arriva fino al rafforzamento e legittimazione, pur implicita, della destra neofascista.
Questa formula si fonda, in sostanza, sull’idea che aggressori e aggrediti sarebbero vittime simmetriche. È un luogo comune purtroppo condiviso anche da una parte della sinistra, effetto della vulgata di un sociologismo di bassa lega. È da un buon numero di anni che cerco di smontarla, questa retorica, e di mostrarne l’infondatezza, la superficialità, la fallacia: ma con risultati alquanto scarsi.
Tutto ciò per non dire delle attuali ideologia e strategia migranticide adottate dall’attuale governo italiano e di fatto approvate, se non incoraggiate, dalle istituzioni dell’UE. È una strategia che dà la priorità all’esternalizzazione delle frontiere, al blocco delle partenze dalla Libia, alla pretesa di sigillare anche il sud libico stringendo accordi con le peggiori milizie e bande di trafficanti, all’opera di denigrazione e di ostacolo verso le Ong che praticano la ricerca e il soccorso in mare.
E a proposito di trafficanti e scafisti. Spesso nel linguaggio pubblico i passeurs sono definiti “negrieri”. È un’allegoria del tutto impropria, poiché i/le migranti/e e rifugiati/e li pagano perché vogliono raggiungere l’Europa, cioè per ricevere un servizio. Che questo possa essere di qualità pessima, fino a causare la morte dei migranti, è colpa soprattutto delle leggi europee sull’immigrazione e delle pratiche conseguenti.
Il termine «schiavi», usato dai razzisti, finisce per negare alle persone migranti ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Anche in questo caso agisce il processo di naturalizzazione delle persone alterizzate: chi compie quei viaggi è rappresentato come mero corpo passivo.
Un’altra cattiva parola, per concludere davvero, è quella di integrazione, che presuppone un processo unidirezionale (meglio sarebbe dire “inserimento sociale”). E non solo: dietro quella parola v’è l’idea, falsa, che basti assimilarsi all’italiano-medio per essere al sicuro da discriminazioni e razzismo. Noi preferiamo parlare di “transculturazione” e “cittadinizzazione”: due termini che denotano processi dinamici e reciproci.